ANDY WARHOL CON GLI OCCHI DI UGO MULAS

Nel 1964 Ugo Mulas, già fotografo ufficiale della Biennale, conobbe a Venezia Alan Solomon e Leo Castelli, questo incontro lo portò nello stesso anno a New York, a ritrarre gli esponenti più giovani dell’arte contemporanea americana. Fu un viaggio di scoperta per Mulas, provocato sì dall’incontro veneziano, ma alimentato dalla sua grande passione per l’arte.

 

Solomon all’epoca era direttore del Jewish Museum e negli ultimi due anni aveva già presentato le personali di Robert Rauschenberg e Jasper Johns. Nel ’64 era curatore del padiglione degli Stati Uniti alla Biennale (che vide assegnare, tra onori e polemiche, il Gran Premio della Biennale proprio a Rauschenberg)
[2. link http://bit.ly/2vJVrS9].

 

Castelli, come scrive Alan Jones su di lui, proprio riferendosi al periodo della Biennale, «era diventato il collegamento naturale tra i due mondi» [3. Alan Jones, Leo Castelli: L’italiano che inventò l’arte in America] e i due mondi erano le due realtà artistiche divise dall’Atlantico, pronte a conoscersi e a contaminarsi.

 

Mulas attraversò quell’oceano di separazione e sbarcò negli Stati Uniti pronto a documentare un periodo fondamentale dell’arte contemporanea americana, tornerà in terra americana altre due volte, nel ’65 e nel ’67. Arrivò a New York senza sapere l’inglese (e gli artisti con cui si rapportava non conoscevano l’italiano) ma seppe colmare questa distanza con «un’incredibile rapidità d’occhio e una sensibilità pronta», come scrive ancora Solomon, «capiva tutto subito: l’intenzione e il significato dell’opera, l’intelligenza e il temperamento dell’artista (per quest’ultimo a volte gli occorreva un po’ più di tempo). A differenza di molti altri fotografi, Mulas non vi fa mai avvertire la presenza della sua personalità o del suo mestiere. Forse è il più invisibile dei fotografi viventi, in apparenza passivo, affascinante per la sua diffidenza, eppure pronto a lavorare con intensità terribile, con preoccupazione totale» [4. Alan Solomon in Ugo Mulas, New York: arte e persone] allo stesso modo in cui Mulas parla nei suoi scritti di un Warhol vivente, preoccupandosi anche di riportare un breve cv artistico, indicandone mostre personali e collettive, come per un qualsiasi artista più o meno affermato, per le stesse ragioni cronologiche Solomon scrive di un Ugo Mulas ancora in vita ai tempi della stesura del libro]. Grazie anche a queste qualità riuscì a fotografare artisti che mai si erano lasciati ritrarre al lavoro.

 

L’incontro con Andy Warhol fu dirompente. Warhol aveva da poco inaugurato la Factory al quinto piano del 231 East 47th Street in Midtown Manhattan (l’edificio storico sede della prima Factory non esiste più), un atelier privato che riuscì ad aggirare il lavoro dei mercanti d’arte e superare l’approccio tradizionalista delle gallerie d’arte, ed è proprio nello spazio argentato di Warhol che si tenne l’incontro.

«A Venezia Mulas scoprì gli americani e io scoprii Mulas. Tra tutti i fotografi della Biennale, egli era l’unico che si trovasse sempre al posto giusto nel momento giusto, durante gli attimi roventi che precedono l’inaugurazione. Quando i quadri di Rauschenberg venivano quasi trasportati di contrabbando (nel cuore della notte, secondo la stampa), Mulas era lì a scattare fotografie (che furono pubblicate sui giornali)». [1. Alan Solomon in Ugo Mulas, New York: arte e persone]

 

«Ciò che di Warhol mi colpì era la sua totale condiscendenza ad ogni mia decisione: sono certo che qualsiasi cosa gli avessi chiesto, l’avrebbe fatta. Questo mi dava un certo senso di responsabilità, potevo fare di lui quello che volevo, potevo usarlo come mi sarebbe piaciuto: e questo mi bloccava, almeno all’inizio. In genere fra me e la persona che fotografo si crea una specie di gioco di forza, un tira e molla: vediamo dove ti porto io, vediamo dove mi porti tu.


Con Warhol questo gioco non c’era: ero soltanto io, e questo a rifletterci mi sembra molto nello spirito di un artista come Warhol. Per esempio nel suo studio c’era un continuo viavai di gente; gente che entrava, gente che usciva, senza salutare, senza dire niente, senza nessun formalismo, non si suonava nemmeno il campanello; sembrava quasi un posto pubblico. Anche l’arredamento era curiosissimo. Non c’era una sedia uguale all’altra; tutto veniva unificato dal fatto che sia il pavimento che le colonne che le sedie che gli oggetti erano dipinti d’argento, e il soffitto ricoperto della carta argentata che usano i fotografi per avere una luce diffusa molto vasta. Le opere di Warhol stavano dappertutto, come in un magazzino, cataste di scatole Brillo o di corn-flakes accanto a decine di repliche della Jacqueline o dei fiori o delle sedie elettriche o delle Marilyn.


In questo universo provvisorio gli assistenti tiravano delle serigrafie, o giravano un pezzo di film, mentre a tutto volume un giradischi ripeteva arie di opere italiane. C’era cioè la più grande deconcentrazione, la più grande mescolanza di gesti e di azioni, al contrario di quanto accadeva nello studio di Stella, dove tutto ricadeva nella ripetizione di uno stesso gesto. Si capiva, o meglio, si sentiva che era Warhol l’anima di qualunque avvenimento, sempre con l’aria di non fare in concreto nulla; ma tutto gli girava attorno, tutto quanto capitava era il risultato preciso della sua impostazione, del suo modo di essere e di fare.


Warhol è sicuramente riuscito a mettere in crisi le mie idee sulla fotografia, quello che pensavo del cinema, e in fondo i miei rapporti con la pittura, soprattutto con i suoi lavori cinematografici, quelli che presentano solo una serie di ritratti. Questi ritratti sono praticamente delle fotografie, primi piani di teste di amici, dove non succede assolutamente nulla, sembrano la proiezione ingigantita di una fotografia, una foto che batte le ciglia, deglutisce, niente altro, eppure questi piccolissimi avvenimenti assumono un’importanza eccezionale. II rifiuto completo del movimento della macchina, di qualsiasi tipo di intervento, dà alle immagini una capacità distruttiva di quello che è il concetto e il senso del cinema, capovolgendo completamente ogni convenzione, e soprattutto chiarendo quanto di artificio e quanto di falso c’è in genere nel cinema che siamo abituati a vedere e a subire.


Per la prima volta ero di fronte a un film dove l’autore non si giovava del potere di persuasione e di sopraffazione cui ricorrono i registi per portarti dalla parte delle loro idee, per compiacere o stordire, comunque per impadronirsi dello spettatore. Warhol usa la proprietà della macchina senza aggiungere nulla, nessun movimento di montaggio o di costruzione. E lo stesso vale per la capacita di Warhol di utilizzare la fotografia e di appropriarsi di immagini non sue. II che significa aver capito che non c’è bisogno di fare fotografie documento quando siamo tutto il giorno subissati da immagini del genere, non c’è bisogno di mettersi a fotografare l’incendio, l’incidente d’auto, i fiori, la bellezza legata alla morte di Marilyn oppure la follia della sedia elettrica quando esistono già migliaia di esempi significativi sui giornali, nei reportages. È già opera creativa lo scegliere fra queste immagini quella che a te è più utile, che è più significativa per il tuo discorso. Prendi queste foto già esistenti, e arrivi elaborandole a una tua verità. Fra il lavoro di Warhol e le fotografie di cui si serve, in fondo, c’è la stessa distanza che c’è fra il dipinto di un impressionista e il luogo lungo la Senna che gli è servito da motivo. Con la differenza che oggi la Senna ci è più familiare attraverso foto e films che non per se stessa: questo mi pare sia il senso delle operazioni dei pop americani e di Warhol in particolare». [5. Ugo Mulas, La fotografia]

 

Bibliografia: Ugo Mulas, New York: arte e persone, testo di Alan Solomon, Milano, Longanesi, 1969. Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1973. Alan Jones, Leo Castelli: L’italiano che inventò l’arte in America, Roma, Castelvecchi Editore, 2007.

 

Photo: Immagini della gallery tratte da: Ugo Mulas, New York: arte e persone

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